Appartenere a una comunità o a un luogo non deve portare all'isolamento e alla limitazione della facoltà altrui di appartenere a qualcos'altro. Per Carolin Emcke la vicenda privata di persona omosessuale diventa un ponte per denunciare le sclerosi identitarie del nostro tempo e per ricordarci che la risposta all'odio non può essere delegata. «La libertà non è qualcosa che si possiede, ma qualcosa che si fa» vivendo, così come la democrazia non è una conquista inscalfibile e richiede, dunque, un esercizio costante. Il suo è un appello all'unicità rivolto a ciascuno di noi: un'assunzione di responsabilità a cui siamo tutti chiamati.

Può il desiderio, un animale cangiante che si agita dentro di noi, essere definito una volta e per sempre? Con un'autobiografia che attraversa la sua adolescenza per farsi cronaca intima e insieme storia di tutti, Carolin Emcke descrive i giochi e i rituali, le dinamiche di inclusione ed esclusione, le bugie e le bramosie della giovinezza, toccandone con mano i confini mutevoli e rivendicando il diritto alla contraddizione. Narrando di chi si conforma alle regole tanto da non vederne più l'esistenza e di chi, come il giovane Daniel, sottovoce se ne discosta fino a sanzionarsi col più estremo dei gesti. Indagando se stessa e il proprio passato, la fibra del suo erotismo e della sua identità. Tracciando infine il tropico dell'omosessualità in tempi e a latitudini diversi, dagli anni Quaranta a oggi, da Gaza alla Germania Ovest, rivelandone la coltre di pregiudizio che ancora la permea.

Razzismo, fanatismo, sentimento antidemocratico: il dibattito pubblico a cui partecipiamo è sempre più polarizzato, dominato da un pensiero pronto a contestare le posizioni degli altri, ma incapace di mettere in discussione le proprie. Carolin Emcke oppone a questa omologazione la ricchezza di una società aperta a voci differenti: una democrazia si realizza pienamente soltanto con la volontà di difendere il pluralismo e il coraggio di opporsi all'odio. Con questi anticorpi possiamo sconfiggere i fanatici religiosi e nazionalisti, che raccolgono consensi ma hanno paura della diversità e della conoscenza, le armi più potenti che abbiamo.

'Nobody I ever met on my assignments . . . asked me for direct, practical help. . . . But over and over again people have asked me: 'Will you write this down?' '--Echoes of Violence

Echoes of Violence is an award-winning collection of personal letters to friends from a foreign correspondent who is trying to understand what she witnessed during the iconic human disasters of our time--in Iraq, Lebanon, Afghanistan, and New York City on September 11th, among many other places. Originally addressing only a small group of friends, Carolin Emcke started the first letter after returning from Kosovo, where she saw the aftermath of ethnic cleansing in 1999. She began writing to overcome her speechlessness about the horrors of war and her own sense of failure as a reporter. Eventually, writing a letter became a ritual Emcke performed following her return from each nightmare she experienced. First published in 2004 to great acclaim, Echoes of Violence in 2005 was named German political book of the year and was a finalist for the international Lettre-Ulysses award for the art of reportage.

Combining narrative with philosophic reflection, Emcke describes wars and human rights abuses around the world--the suffering of civilians caught between warring factions in Colombia, the heartbreaking plight of homeless orphans in Romania, and the near-slavery of garment workers in Nicaragua. Freed in the letters from journalistic conventions that would obscure her presence as a witness, Emcke probes the abyss of violence and explores the scars it leaves on landscapes external and internal.