Nei personaggi di Itaka parla una voce che ho ascoltato dentro di me, quella di Ulisse, quella degli emigranti partiti con la valigia di cartone e quella dei giovani come me, che per forza o per destino hanno dovuto lasciare le loro radici. Antonio e Fiore vivono all'estero ma sentono giorno per giorno la vita autentica sfuggirgli di mano, così vivono in una dimensione fuori dal tempo e fuori dallo spazio, che è quello dell'attesa. Attesa delle vacanze, di vedere il cielo azzurro o semplicemente di sentire il chiacchiericcio di una lingua che non devono sforzarsi di comprendere. Quello che resta ad Antonio, ragazzo solitario e introverso, è un incontro settimanale in un bordello e delle brevi telefonate alla madre in cui racconta solamente della cornice di quello che vive, incapace di guardarsi dentro. Fiore vive all'estero perché è in fuga da se stessa e passando di bocca in bocca si illude di aver trovato la pace tra le braccia di un premuroso uomo, ma cede sempre alla chiamata della fuga. Vince è mio nonno, che è partito verso l'Australia ma sognava sempre Itaca, ed è uno specchio, un ritorno dell'uguale, un riferimento di Crociana memoria di come il presente sia l'attualizzazione del passato. Poi ci sono io, che parto per amore ma che devo fare i conti con una sensazione di estraneità che non conoscevo, con il cielo, con la lingua, con i colori di un mondo lontano anni luce dalla mia Sicilia. Tutti i personaggi, che vivono nel dicotomico viaggio tra reale e ideale, vengono ribaltati nella seconda parte del libro, dedicata all'incapacità di lasciare il proprio Paese e la
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