I versi di Francesca Fallarino sembrano appunti lacunosi di una diaspora da se stessi, brandelli di spazio convertito in tempo, trasformato in voci e parole sussurrate all'Infinito in un disagio ramingo che sa di poesia. Perché non serve dormire all'addiaccio per sentirsi apolidi in patria, esuli dell'anima, terremotati di se stessi: «Non aveva un tetto la mia casa, / ed ora il sottobosco e il cielo sembrano uguali». Al centro di ogni scritto c'è un nucleo di inquietudine, in genere abbastanza leggibile, che viene cesellato con un ritmo semplice e libero, quasi rassicurante, talvolta increspato da isolati guizzi di rime che si impongono sui versi già trascorsi riorganizzandone il flusso, attraendoli e costringendoli a gravitare intorno alla propria con-sonanza. Tra i moti di uno spopolamento interiore scorrono, senza il peso di riferimenti e intenti didascalici, albe e tramonti, 'fantasmi nostalgici', 'ossa inesplorate', atmosfere e antropologie delle aree interne meridionali, il «profumo di merda e caffè», «persino i botti per quel santo patrono» non ancora bestemmiato.
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